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fonte : www.vanityfair.it
Aveva tutto, si divertiva, guadagnava moltissimo. Ma «mi sentivo troppo a mio agio». Allora ha capito che doveva cambiare strada. Ed è partito per un lungo viaggio. Imparando che cosa significhi svegliarsi pieno di voglia di lavorare, di amare. E con un Golden Globe (o un Oscar) al fianco. A un certo punto Matthew McConaughey mi spiega che, quando la vita diventa troppo facile, lui di solito parte: «I viaggi migliori sono quelli che mi portano dove nessuno mi riconosce o parla la mia lingua. Sono stato in Mali, Perú, in Amazzonia. Scelgo posti dove manca l’elettricità e non arrivano i film, al massimo una vecchia T-shirt con la scritta “Terminator”. Vado dove vivere è frustrante, perché solo così sono costretto a riflettere su chi sono e di cosa ho veramente bisogno». Siamo in una stanza d’albergo di Los Angeles per parlare di Dallas Buyers Club, in cui McConaughey è Ron Woodroof, un elettricista texano eterosessuale, promiscuo e omofobo, che nel 1986, dopo aver scoperto di essere sieropositivo, importa illegalmente e vende ai malati le medicine non ancora approvate negli Stati Uniti. Per impersonare Woodroof – interpretazione per la quale ha appena vinto, alla prima nomination, il Golden Globe – McConaughey ha perso 22 chili, ma se gli chiedete come ci è riuscito non parlerà di diete, palestra o «Metodo»: la risposta è ancora un viaggio, stavolta dentro se stesso. «Ogni grammo che ho perso nel fisico l’ho guadagnato in lucidità: ho cercato un modo per passare il tempo che di solito dedicavo al cibo, a cucinare o a mangiare». Se come è certo McConaughey riceverà anche all’Oscar la sua prima nomination come migliore attore protagonista per Dallas Buyers Club, e se, come è molto probabile, finirà per vincere una statuetta, sarà anche per questa voglia di partire che lo porta sempre a una nuova conquista che sa di fatica e di predestinazione. Proprio i suoi viaggi professionali lontano dal comfort lo hanno reso irriconoscibile al pubblico che lo aveva relegato nel ruolo del bello palestrato delle commedie romantiche. Negli ultimi due anni è stato anche il fuggitivo reietto nascosto su un’isola deserta in Mud. Lo spietato assassino di Killer Joe. Il gestore di uno strip club per casalinghe arrapate in Magic Mike. Una trasformazione per cui a Hollywood hanno coniato un neologismo: «McConaissance», ovvero il rinascimento di Matthew McConaughey. Ma anche su questo lui ha da ridire, perché non c’è niente di pianificato nella nuova fase della sua carriera: non ci sono state decisioni prese a tavolino con gli agenti o strategie di comunicazione. Come spesso accade con questo filosofo texano che gira e rigira ogni idea con un forte accento sudista, quella della sua rinascita professionale è una questione più spessa che ha a che fare con il senso della vita, con il suo passato di figlio e il suo presente di padre, con un film che lui vedeva da bambino sperando in un finale diverso. Oltre che naturalmente con la decisione di sparire per un po’.. È stata una scelta consapevole quella di cambiare la rotta della carriera? «La decisione consapevole fu quella di cambiare marcia, per riattivare la mia relazione con la carriera. Tutto andava bene, mi divertivo, guadagnavo un sacco di soldi. Eppure mi sentivo troppo a mio agio, la vita era tutta in discesa e invece a me piace quando c’è una leggera salita. Non una scalata, non un precipizio: una dolce salita che ti tiene sotto sforzo, che dà un senso. E allora, a partire più o meno dal 2008, quando è nato il mio primo figlio, ho deciso di smettere di lavorare per un po’. E di vedere cosa succedeva». E che cosa è successo? «Sono diventato più egoista, ma in un modo sano, almeno penso. Ho smesso di chiedere permesso agli altri e di guardare la mia carriera dall’esterno: ora quello che importa è come mi sento dentro. Se poi quello che faccio piace anche al pubblico e ai critici, meglio ancora. Ma se i miei film degli ultimi due anni non fossero piaciuti a nessuno sarei comunque qui a parlarne nello stesso modo, perché quello che conta per me è stata l’esperienza». È una sensazione che le piace? «Sono molto più forte perché non dipendo dal giudizio degli altri. Negli ultimi due anni, quando arriva il lunedì e c’è da andare a lavorare, salto giù dal letto felice, non vedo l’ora di arrivare sul set, pregusto la scena che devo girare come un bambino davanti a una torta. E più il personaggio è difficile, più io sono contento. È il senso della sfida che mi motiva». |