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Sasha e Orso: l'intervista allo zar Ivan Zaytsev

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view post Posted on 25/9/2016, 20:35     Top   Dislike
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Ma si che grande idea VIAREGGIO inventa l'allegria

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Fonte : www.vanityfair.it

La sua palla record è schizzata a 127 km l’ora davanti a milioni di italiani. Ma il trascinatore della Nazionale fa paura soltanto in campo: vestito solo di suo figlio, si è messo a nudo per noi

«Tutte le volte che lo lancio in aria vola davvero in alto, ma lui non ha paura, ride come un pazzo».
Un giovane padre che lancia il figlio piccolo verso il cielo, niente di più normale.
Ma se a parlare è Ivan Zaytsev le cose un po’ cambiano. Due metri e 4 centimetri di statura, tanto alto che per fotografarlo abbiamo dovuto portare una scaletta sul set, due mani che sembrano i cannoni dell’Armata Rossa, quando passa all’azione e lancia Sasha in aria chiudendo le mani come sottorete mi scappa un urlo di pura apprensione. Giustificata: il suo servizio a Rio nel quarto di finale olimpico contro l’Iran, 127 chilometri orari di velocità, è record: la battuta più potente mai registrata in un’Olimpiade. Forse per questo il bambino prima di riprendere forma tra le braccia di Zaytsev per un attimo sembra allungarsi come le palle dei cartoni giapponesi di Mila e Shiro.

Ma due cuori nella pallavolo potrebbe essere anche la didascalia della storia personale dello «Zar del volley»: sua moglie Ashling, ex modella e un passato nella cooperazione internazionale Onu, lo segue come un’ombra, a bordo campo, sempre in maglia azzurra e con Sasha accanto. Belli, biondi, romanticissimi (lei è 1,84), celebrano il loro amore anche su Instagram e dall’account Twitter (enigmatico: @1v4n0t7o, «sta per il mio nickname, Ivanotto»). Dopo due anni di trasferta in Russia con la Dinamo Mosca sono tornati in Italia, il 2 ottobre «lo Zar della pallavolo» ripartirà nel campionato italiano, con la Sir Safety Perugia.

Mentre lui si prepara per le foto, parlo con lei. Dopo che gli azzurri hanno conquistato l’argento nella finalissima contro il Brasile e una fama quasi improvvisa da 5 milioni di spettatori, la vita, ovvio, un po’ è cambiata. «Ci siamo dovuti comprare un’agenda». Arriva lui, senza le catene, i gioielli, le borchie e l’abbigliamento un po’ rockstar con cui è arrivato, ma con la cresta mohicana in testa che è il suo marchio di fabbrica. «Sasha mi riconosce dai capelli. Per lui le partite di pallavolo sono come i cartoni di Masha e Orso: guarda la partita, mi riconosce in campo e sta buonissimo. L’unico problema è che anche il tennis gli fa questo effetto, ogni volta che vede Roger Federer grida “papà!”».


Dica la verità, l’argento dei secondi l’ha fatta arrabbiare?

«Un po’ sì, il legnaccio non mi piace come medaglia».
Il legnaccio? Si dice così?
«No, credo di averlo inventato io, ma rende l’idea. Logicamente è stato fantastico, perché arrivare così in alto non ce l’aspettavamo proprio. Però una volta lì, cavolo, io sono uno che non sa perdere. Ok, forse meglio così, ci rimane un po’ di quella “fame” di vittoria da tenere per Tokyo 2020».
Di recente ha detto in modo abbastanza chiaro che la pallavolo deve fare un salto di qualità, uscire dalla nicchia. Al ritorno da Rio ha anche polemizzato un po’ con la sua federazione nazionale.
«Non ho polemizzato, era una critica: mi sembra assurdo che con tanta gente che si è appassionata a noi ai Giochi, questa onda di entusiasmo non abbia creato alcuna iniziativa per farci conoscere ancora meglio anche a casa. Il volley è il secondo sport in Italia per numero di tesserati, eppure noi giochiamo e la gente a volte nemmeno lo sa. Per esempio, hanno invitato tutta la Nazionale alla presentazione dei campionati che stanno per partire, però davanti ai soliti 3 o 4 giornalisti, a porte chiuse. Ma non sarebbe meglio farlo dove può venire anche la gente, aperto a tutti?».
Ha avuto reazioni alle sue critiche?
«Zero. Nemmeno una parola, sarebbe stato già un segnale. Però quando abbiamo fatto qualche video scherzoso con gli altri in ritiro per metterlo su Instagram, mi hanno invitato a smettere. Ma non ha senso che il volley resti un circolo chiuso. Non sfruttare questo momento è così stupido. Anche per questo sono tanto sui social, in contatto con gli appassionati, che sono abituati a vederci da vicino. In pratica mi sto muovendo da solo».
Il volley è molto seguito dalle ragazze: capitano fan troppo pressanti?

«Magari qualche citofonata di troppo, niente di ingestibile».
Il pallavolista è il tipo di sportivo pieno di donne che può far ingelosire una moglie?
Interviene Ashling. «La fisicità nel volley non manca, sono bei ragazzetti in effetti, ma io come si dice “dormo su sette cuscini”, il giocatore di volley non rappresenta certo il gancio per un salto sociale, e poi le fan spesso sono davvero giovanissime».
Ivan, lei concorda?
Zaytsev ridacchia. «In realtà tutto dipende da te, se te la vai a cercare o no... Io comunque sono molto più geloso di lei, è una donna decisamente fuori del comune».
Voi tre sembrate l’emblema della famiglia felice, per lei è stato sempre così?
«Assolutamente no. Vede questo tatuaggio che ho sul petto? È una rondine con una testa di passerotto, l’ho fatto a 18, 19 anni e rappresenta la testa che non avevo sulle spalle. Diciamo che me ne fregavo delle conseguenze».
Che cosa si potrà fare mai a 18 anni?
«Be’, si può fare. Io a 18 anni ho firmato il mio primo contratto a Roma, uscivo la sera, facevo tardi».
Era un po’ «calciatore»?
«Ecco sì. Mi ero comprato una macchina che era costata tutto l’ingaggio di un anno».
Insomma si è perduto?
«Be’, oddio... un po’ sì».
E come si è salvato?
«Sono stato cambiato dall’amore. Quando ho conosciuto Ashling».
Oh finalmente. Lei parla umbro ma qualcosa di russo ce l’ha: è sentimentale. Ha un tatuaggio che celebra anche questo?
«Sì, ho questa parola lungo il braccio, mia moglie ne ha una uguale sulla schiena. È scritta al contrario, “alla Leonardo da Vinci”, va vista allo specchio, è in una specie di giapponese antico misto all’italiano. Ma non ho mai detto cosa significa, è una cosa privata».
Dai ce lo dica, suona sempre più romantico.

«Ok, c’è scritto “Oceano Mare”. Il libro di Baricco è stato molto importante per noi due. Il mio ultimo tatuaggio, invece, è diverso: un samurai a cavallo sulla coscia, è un disegno originale di Horiyoshi III, uno dei più grandi tatuatori giapponesi viventi, ci tengo molto».
A parte il titolo di «Zar» e i tatuaggi da romanzo di Nicolai Lilin, sembra italianissimo, e parla umbro. Che cosa c’è in lei di russo?
«Ho letto Educazione Siberiana e mi è piaciuto. Nicolai Lilin in effetti è russo ma italiano, e fa i tatuaggi. Sono abbastanza attratto dal mondo criminale russo, ma solo come fascinazione: sono pacifista. Di russo in me c’è l’educazione dei miei genitori, direi sovietica. Per insegnarmi a nuotare da piccolo sono stato buttato nel lago fuori dalla Dacia. Sono stato allevato in modo duro».
Ha un’aria molto tranquilla, le grida da cosacco in campo da dove arrivano?

«Quello è il dna russo, appunto. In campo mi trasformo. In realtà perché non so perdere. La verità è che io non sono né russo né italiano: sono di mare, mi piace l’acqua, la sabbia, devo essere siciliano».
In effetti lei è nato in Italia.
«Sì. Mio padre è stato il primo atleta dell’Unione Sovietica ad avere da Gorbaciov il permesso di espatriare per giocare fuori dall’Urss. Una cosa clamorosa. Nel 1988 andò a Spoleto, dove sono nato io. Praticamente sono un figlio della Perestrojka. Però sono diventato cittadino italiano ufficialmente solo in anni recenti».
Madre nuotatrice, padre eroe sportivo, oro ai Giochi di Mosca con la pallavolo. Il destino era segnato?
«Per forza, da piccolo non ricordo di aver mai desiderato o immaginato di fare un altro mestiere».
Suo figlio Sasha potrebbe essere la terza generazione?
«Io veramente spero che diventi un gran cuoco, sono molto appassionato del mangiar bene. Ma non ci conto: la pallavolo lo incanta già».
Tornando al Brasile, quest’anno siete stati portati in trionfo, ma proprio a Rio un anno fa lei è stato espulso con clamore dal ritiro azzurro e rimandato in Italia con tre compagni per un rientro ritardato in albergo. Vi siete scusati, ma può raccontare com’è andata?
«Certo. Lì non si è trattato per niente di trasgressione giovanile, eravamo, io in particolare, in netto contrasto con l’allenatore di allora (Mauro Berruto, ndr). Non voglio dire che fossimo prigionieri, ma erano due o tre anni che c’era un clima brutto nella squadra, con regole e orari punitivi. Ritiri troppo lunghi, poche ore a casa, lunghi viaggi per tornare. Non ce la facevo più».
Un ammutinamento di protesta?
«Diciamo che eravamo al limite, quando un sabato sera, mentre eravamo a cena, arriva un messaggio al mio compagno Dragan Travica dallo staff tecnico, dice che il rientro era alle 23.30. Il giorno dopo era libero, ci siamo guardati e siamo andati contro. Abbiamo preso un taxi e siamo andati alla Escalera de Selarón, la scala del quartiere Santa Teresa, l’abbiamo percorsa un paio di volte e ci siamo bevuti due caipirinhe. Abbiamo sbagliato e giustamente siamo passati come anarchici, ci siamo scusati. Molti quando siamo stati rimpatriati hanno pensato “che stronzi, con i contribuenti che pagano la Nazionale”. Ma il nostro era un gesto di insofferenza, in quel momento è andata così».
Quest’anno è stato molto diverso.
«Altro che, eravamo tutti molto a nostro agio, e non l’abbiamo presa con stress. Non ho potuto vedere niente, nemmeno una gara, ma l’atmosfera era unica lo stesso».
Non ha visto nemmeno la sua famosa palla proiettile?
«Solo il pezzetto su YouTube, non mi sono assolutamente accorto che fosse così veloce».
Colpo di fortuna o saprebbe rifarlo?
«Niente fortuna, l’ho già rifatto qui a Perugia».
Prima di tornare in Italia giocava in Russia. Era titolare della Dinamo Mosca quando è scoppiato lo scandalo doping: che idea si è fatto?
«È stato brutto ritrovarsi in Russia in quel momento. Certo è che io in due anni che sono stato in Russia non sono mai stato sottoposto a un controllo antidoping...».
Conosce qualcuno che ha assunto il meldonium?
«Preferisco non rispondere».
Ora che l’Olimpiade è alle spalle, oltre al campionato che progetti ha?
«Veramente un progetto ce l’avrei. Vorremmo avere un altro figlio, ci stiamo provando, chissà. Vediamo, speriamo. Se arrivasse il secondo... Sarebbe un gran bell’argento.

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